Manibus Magazine

Mest Colin, l’ultimo maestro d’ascia di Monopoli

di Mariella Vitucci 

Il racconto di un’arte antica e complessa, tramandata di padre in figlio ma destinata a scomparire insieme ai gozzi di legno

Le sue mani nodose portano i segni di oltre sessantacinque anni di lavoro tra scalpelli, chiodi, raspe, magli… Nicolò Lafronza – per tutti mest Colin – è l’ultimo maestro d’ascia della storica scuola monopolitana. Un mestiere antico e difficile imparato sin da bambino, a bottega dal padre Cosimo e da altri maestri artigiani, e praticato insieme ai cinque fratelli. Tutti ebanisti di prim’ordine.
Oggi, a 76 anni, mest Colin non ha ancora appeso l’ascia al chiodo. Né mai lo farà, giura suo figlio Cosimo, contagiato dalla passione di famiglia per l’ebanisteria nautica ma metalmeccanico per ripiego. «Il mestiere del maestro d’ascia – spiega – è ormai in estinzione, schiacciato dalla difficoltà di reperire le materie prime necessarie».

 
Una professione al tramonto, come le barche completamente realizzate in legno. Gli ultimi gozzi di Monopoli – poche decine – ancora punteggiano il mare. I vecchi pescatori del posto non rinunciano all’abitudine quotidiana di gettare le reti, a quell’attesa paziente, a quella fatica arcaica intrisa di sale, alla mercé del vento e del sole, del freddo e del caldo che bruciano la pelle.
Il mestiere del maestro d’ascia, disciplinato dall’articolo 280 del regolamento per l’esecuzione del Codice della navigazione, esige preparazione tecnica e abilità manuali eccezionali. Doti sempre più rare e sempre meno richieste in un settore ormai dominato dalla plastica, più leggera e performante ma priva del fascino senza tempo del legno.
Sospira mest Colin, presagendo la fine dell’arte che ha solcato l’intera sua vita. Il figlio Cosimo e i nipoti hanno dovuto scegliere mestieri diversi, perché quello del maestro d’ascia non dà più da vivere.

 
I ricordi di bottega a cala Porta Vecchia, con le mura poderose e le casette imbiancate alle spalle e il mare di fronte, sono scolpiti nella memoria del vecchio artigiano. Gli attrezzi presi in mano per la prima volta all’età di dieci anni per imparare il mestiere, dopo aver fatto gavetta a pulire e raddrizzare chiodi; il piccolo laboratorio sulla spiaggia, poco più di una baracca, dove nel dopoguerra si riparavano e costruivano gozzi. «Quando io e i miei fratelli fummo congedati dal servizio militare – rammenta – mio padre aprì l’attività ufficiale con la licenza di maestro d’ascia. Realizzavamo anche disegni di motobarche, pur senza avere nozioni tecniche riuscivamo a fare calcoli anche molto complessi».
Mest Colin ricorda i gozzi a remi e le lunghe trasferte fino a Torre Guaceto, con la spinta ausiliaria di una vela latina. I marinai restavano fuori anche per tre mesi per le battute di pesca, dormendo in spiaggia.
Ora tutto è cambiato. La manutenzione del legno è troppo costosa: pitturazione almeno una volta l’anno, ritocchi, riparazioni… L’ultimo maestro d’ascia monopolitano scandisce le fasi di costruzione dei gozzi. L’ossatura dello scafo da realizzare in legno di quercia o olmo, alberi ormai estinti nella selva di Monopoli. Sono gli unici – spiega – ad avere il diametro e la curvatura naturale giusta. Robusti e resistenti alle muffe, da tempo vengono importati dall’Albania o dalla Calabria, ma scarseggiano. È materiale molto costoso e quasi introvabile. Poi ci sono i tempi lunghi della stagionatura, da un anno a diciotto mesi.

 
La misura standard dei gozzi era di 3,70 metri, 14 palmi. Quelli per la pesca a lampara più snelli e leggeri; quelli per la pesca con le reti più larghi, per far spazio al baglio dal centro verso poppa.
«Un gozzo di circa quattro metri veniva realizzato in un mese e mezzo. Nessuno uguale all’altro», ricorda La Fronza. Il maestro d’ascia – sottolinea – deve saper sezionare bene ed imprimere la giusta inclinazione ad ogni asse. Per il fasciame il legno più indicato è il pino russo, anch’esso ormai irreperibile. In alternativa si è passati al pino di Svezia, perché l’abete è inadatto, troppo asciutto e poco elastico, soggetto ad infiltrazioni. Tra una fessura e l’altra gli spazi vengono colmati con il calafataggio: si usa la canapa isolante, inserita con cinque scalpelletti di diverso diametro. Ma anche questo è un materiale difficile da reperire, mentre un tempo c’erano molti magazzini dove venivano recuperate grosse corde dai bastimenti in disarmo. Perfino i chiodi zincati, gli unici che resistono alla ruggine in acqua salata, non esistono quasi più perché le fabbriche che li producevano stanno scomparendo. Servono da tre a quattro chili di chiodi per costruire un gozzo medio.
Mest Colin scruta mesto il mare. Ricorda le centinaia di gozzi realizzati con le sue mani instancabili, lavorando dall’alba fino al calare del sole, sette giorni su sette, concedendosi solo una mezza giornata di riposo la domenica. Accarezza un fianco del “Maria della Madia”, il gozzo in secca nel suo laboratorio, dedicato alla patrona di Monopoli a cui ogni pescatore si vota. L’altro più grande, “Iride”, è a mare. Poi c’è il “Queen Mary”, ultima creatura della premiata ditta Lafronza: una lancia disegnata dal nipote di mest Colin, Nicholas. Lui e il fratello Vincenzo non possono stare lontani dall’acqua, dice il nonno orgoglioso. «Ma il mio mestiere – sentenzia – morirà con me. Non c’è più tempo per la pazienza e i sacrifici. Non c’è più mercato per il legno».

 
Ma all’orizzonte c’è la speranza di trovare nuovi materiali e nuove tecnologie, capaci di dar corpo a gozzi di nuova generazione attraverso le mani degli artigiani del futuro.

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